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martedì 15 gennaio 2019

Il Castello (o Grangia) di Tecchiena


«La tenuta dei Certosini chiamata Ticchiena è uno dei più ricchi possedimenti della Campagna. Mille coloni la coltivano, agricoltori che pagano l'affitto dei campi in natura o col proprio lavoro. Sei frati laici amministrano la tenuta e di quando in quando abitano la fattoria. Grano, olio, vino e frutta vi si raccolgono in quantità. La rendita è impiegata ai diversi scopi del monastero, fra i quali primeggia la beneficenza. Il nome della Certosa di Trisulti è benedetto e lodato in tutta la contrada»
(Ferdinand Gregorovius, “Passeggiate per l'Italia”)


Così scriveva, tra il 1858 ed il 1860, lo storico e medievista tedesco Ferdinand Gregorovius durante i suoi pellegrinaggi nelle campagne laziali in cui descriveva le località che incontrava, comprese le loro curiosità e le loro storie centenarie.

Ma andiamo a vedere cosa è stata la Grangia e quanto è stata importante nel corso della storia per Tecchiena, oggi piccola frazione di circa 4000 abitanti nel comune di Alatri (FR).

Tra il 1000 ed il 1300

Il nome compare nei documenti storici in forme diverse, tutte latinizzazioni dello stesso termine in volgare. Si ritiene che il nome derivi dal latino techna, che significa astuzia ma anche frode o agguato. Il riferimento è proprio all'area di Tecchiena nei pressi del castello e vale a dire tra i monti Reo, Radicino e Monticchio, che in età ancora più antica militarmente doveva risultare un luogo ideale per tendere agguati in quanto si tratta di una stretta valle ed in cui passava (e passa ancora) una strada che collegava la rivale Ferentino con la vicina Alatri.

L'abitato di Tecchiena si formò a partire dall'XI secolo, quando per volontà del popolo di Alatri furono edificate alcune fortificazioni sul piccolo colle Monticchio. Le prime menzioni risalgono al 1122, negli “annales Ceccanenses”, dove si parla di “Ticclena”, e pochi anni più tardi è riportata la testimonianza di una chiesa intitolata a San Silvestro come parrocchia del centro abitato. Sempre nel 1122 sia ha notizia che il castello viene incendiato una prima volta e la cosa si ripete nel 1155 ad opera delle truppe che Guglielmo di Sicilia aveva inviato ad invadere le terre della Chiesa. Infine nel 1188 (ogni trentatrè anni, come una cadenza fatale), Tecchiena viene nuovamente data alle fiamme, questa volta ad opera dei Ferentinesi. Negli anni seguenti, Tecchiena risorse dalle rovine e dalle sue ceneri. Nel punto più alto del colle Monticchio fu elevata una poderosa torre, che alla base misurava nove metri per otto. Intorno ad essa vi era un muro di cinta con uno stanzone sotterraneo a cui si poteva accedere attraverso un cunicolo che, dall'esterno, permetteva agli abitanti del castello di rifugiarvisi in caso di bisogno.

Tecchiena, insomma, si era trasformata in un castello fortificato, sicuramente ad opera del Comune di Alatri per difendersi dalla vicina Ferentino. Ma nel 1243, a causa delle continue lamentele dei Ferentinesi e le pressanti esortazioni del papa, si arrivò ad un accordo che prevedeva la distruzione della torre e di ogni sorta di fortificazioni. D'allora in poi, Tecchiena doveva essere un villaggio aperto, in cui alatrini e ferentinesi potessero vivere liberamente, con pari diritti per quanto riguardava l'uso civico delle cose comuni come vie, fonti, pascoli e selve.

Il trattato di pace, giurato solennemente per mezzo di procuratori a Ferentino e ad Alatri, fu di brevissima durata poiché gli Alatrini, ritenendolo lesivo dei loro diritti, lo violarono in modo indegno e clamoroso. Infatti, nel 1245, avendo attirato nella loro città numerosi Ferentinesi per le celebrazioni in onore del patrono san Sisto, li sorpresero nel sonno e li gettarono in prigione dopo averli spogliati delle vesti, dei cavalli e del denaro.

Il Comune di Ferentino, per salvare la vita dei prigionieri, dovette accettare le eccessive richieste degli Alatrini che fino al 1247 rifiutarono qualsiasi offerta, nonostante l'intervento del rettore della Provincia di Campagna (in gran parte l’attuale Provincia di Frosinone) e dello stesso papa Innocenzo IV, che lanciò contro di essi la scomunica. Soltanto nel 1247 si decisero a scendere a patti e a firmare la pace con i Ferentinesi; ma le trattative furono difficili e lunghe. Finalmente, la rivalità fra le due città di origine pelasgica fu chiusa.

Per quanto riguarda il Castello di Tecchiena, per evitare altri danni alla struttura, papa Innocenzo IV fin dal 22 luglio 1245 aveva privato il Comune di Alatri di qualsiasi diritto sul “castrum Teclene cum suis pertinentiis”, che fu incamerato come feudo della Chiesa romana.



Il Castello sotto la guida dei Certosini

Il Castello venne in seguito rivenduto nel 1395 dal papa ai Certosini di Trisulti. I monaci fondarono una vera azienda agricola che nella seconda metà del XVIII secolo fu trasformata nell'attuale complesso della Grangia (granaio), che gestirono fino agli inizi del Novecento.

Ma lo stesso Castello, non più conteso tra i comuni di Alatri e Ferentino, dovette lo stesso subire altre incursioni e prepotenze soprattutto nella prima metà del Trecento, da parte del conte Francesco di Ceccano. Grazie però ai certosini, il Castello prosperò e così tutta la comunità di Tecchiena godette per molto tempo di larghe autonomie , anche grazie ai suoi Statuti che ne regolavano la vita sociale, lavorativa e religiosa.

Molti studiosi, sapendo le condizioni in cui versava la provincia di Campagna verso la fine del secolo XIV, rimangono sorpresi di come la minuscola comunità di Tecchiena, composta unicamente di contadini e di pastori, potesse pensare a darsi degli Statuti e vivere egregiamente. In tutto ciò, i certosini mantennero la pace ed elessero per anni e anni il castellano, a cui era affidato il compito di fare osservare gli Statuti. L'arrivo dei Certosini trasformò inoltre la tenuta in un vero e proprio granaio per il fabbisogno alimentare della Certosa di Trisulti (nel comune di Collepardo).

Ma, durante i cinque secoli della loro presenza a Tecchiena, il pacifico possesso della tenuta fu per i certosini anche difficile e molto impegnativo soprattutto nel difendere la loro proprietà e i loro diritti.

E così la fertile Tecchiena, che l'operosità degli esperti monaci aveva trasformato in una tenuta modello, costituiva una grossa tentazione per signorotti, marchesi, mercanti arroganti.

Tecchiena, insomma, seguitava ad essere un pomo di discordia, anche se lo scontro per l'affermazione di diritti su di essa non avveniva più, come nel Duecento, tra i Comuni di Alatri e di Ferentino.

Pur con molte difficoltà, il "tenimentum" raggiunse una certa vastità tale che nella seconda metà del XVIII secolo i Certosini iniziarono ad allargare i loro possedimenti ed edificarono nuove strutture.

Nel 1795 i monaci avevano celebrato il quarto centenario della loro venuta a Tecchiena. Grazie soprattutto all'apporto della vasta ed efficiente tenuta, il Settecento stava per chiudersi con realizzazioni imponenti e di significato storico: la primitiva certosa di Trisulti aveva ceduto il posto alla monumentale costruzione che ai nostri giorni, con la sua mole e le opere d'arte che accoglie, tanto impressiona il visitatore. Tutto lasciava prevedere tempi lunghi per una vita e un'attività serena e fruttuosa.

Invece era alle porte il secolo delle soppressioni e delle confische.

Il secolo delle soppressioni

La prima avvenne nel 1798, in seguito all'occupazione di Roma da parte delle truppe francesi e alla proclamazione della Repubblica Romana: il generale napoleonico Alessandro MacDonald sopprimeva le due abbazie di Fossanova e di Trisulti, incamerandone tutti i beni. La grangia si trovò esposta al saccheggio sistematico, ma il nuovo padrone non ebbe il tempo per prenderne possesso, poiché nell'agosto dell'anno seguente, i Francesi venivano cacciati da Alatri e ai primi di ottobre cessava di esistere la Repubblica Romana.

Durante la nuova soppressione degli enti religiosi, ordinata da Napoleone I nel 1810, i certosini dovettero abbandonare per oltre quattro anni la fiorente tenuta, che, a quanto sembra, divenne il possedimento di un alto ufficiale francese.

Più breve fu la sciagura della repubblica romana del 1849, i cui promotori si affrettarono a far compilare un dettagliato inventario dei beni della grangia.

Nuove apprensioni ai monaci le diedero i garibaldini di Giovanni Nicotera, sulla fine dell’ottobre 1867: per tre o quattro giorni, la casa ebbe custodi diversi dai monaci e nulla più fu come prima.

Finalmente, si ebbe l'ultima delle soppressioni, messa in atto il 23 novembre 1873. Il demanio prendeva possesso della tenuta di Tecchiena. Ma, senza Tecchiena, la certosa di Trisulti non poteva sopravvivere. Per questo si pensò subito al modo di rientrarne in possesso.

Tutto l'Ordine certosino vi si sentì impegnato e con sacrifici riuscì a ricomprarla dallo Stato, neppure un anno dopo, per merito del cittadino ceccanese Filippo Berardi, il quale a proprio nome ma a vantaggio dei monaci, il 3 agosto 1874 firmava l'atto di compera.

Sulle spalle dei monaci che, ancora una volta, tornavano alla loro grangia, pesava però l'immenso debito che, sia pure a rate, bisognava pagare.

Ma l'odissea dei poveri certosini non era ancora chiusa.

Anche se nella certosa di Trisulti seguitavano a dimorare alcuni monaci, l'Ordine rimaneva pur sempre soppresso e quindi incapace di diritti. Fu perciò necessario intestare la riacquistata tenuta di Tecchiena a persone particolari.

Ne divennero così proprietari, a nome della Certosa, il priore don Michele Duca e don Benedetto Giovannangeli.

Nello spazio di appena nove anni, quest' ultimo riuscì a liberare la Certosa dall'enorme debito contratto. Sembrava, quindi, che tutto fosse rientrato nella normalità e che si potesse sperare in giorni sereni, da occupare, come era avvenuto prima della bufera delle soppressioni (cinque in 75 anni!), tra lavoro e preghiera. Purtroppo, però, nel giro di appena otto mesi, tra il febbraio e l'ottobre 1887, morivano i due titolari della Grangia di Tecchiena.

Altre noie burocratiche, altre spese per il passaggio dell'eredità al nuovo intestatario e, soprattutto, altra inattesa macchinazione contro il buon diritto dei monaci sulla tenuta.

Il nuovo erede, don Vincenzo Renzi, aveva appena pagato l'ingente tassa di successione ma si presentò ad Alatri il cognato del Giovannangeli, un certo dottor Raffaele Scaramucci, con un testamento che diceva esser stato scritto dal defunto suo parente, nel quale veniva dichiarato erede d'ogni avere Andrea Giovannangeli, fratello del monaco defunto.

Senza entrare nel merito della lunga vertenza giudiziaria, basti dire che il testamento era falso; a scriverlo era stato un certo Ettore Strambi.

Tutta la vicenda ha del romanzesco poiché lo Strambi, trovandosi in fin di vita, confessò l'imbroglio.

Lo stesso Strambi, insperatamente guarito, mantenne l'impegno. Ma non gli fu facile esser creduto. Per convincere il giudice, dovette ricorrere ad uno stratagemma: gli presentò un foglio in cui aveva contraffatto calligrafia e firma in modo cosi abile, che il magistrato non seppe distinguere lo scritto autentico da quello falso. E così il Castello tornò ai monaci.

Finalmente, dopo un ventennio di logoranti vicende giudiziarie, i monaci riebbero di diritto la loro Grangia. Ah, se ci fossero stati ancora gli Statuti di Tecchiena!

La fine della gestione certosina

L'annosa vertenza per la tenuta fece perdere ai monaci l'autorità morale e la volontà di continuare nella secolare gestione. Intanto il numero dei monaci agricoltori, carpentieri ed allevatori di bestiame si era notevolmente assottigliato.

La Certosa di Trisulti dovette perciò affrontare una grave decisione, angosciosa e nello stesso tempo ineluttabile, quella di vendere la Grangia di Tecchiena, la «perla» dei suoi possedimenti terrieri.

Date le circostanze, più che di una vendita, si trattò d'una svendita. L'acquirente, Arturo Pisa, uno scaltro mercante ebreo, l'acquistò sborsando meno di un quarto del prezzo reale e stimato. Il 2 marzo 1918, entrò in possesso del castello e della tenuta, di ben 969 ettari e «di ricche suppellettili e di attrezzi e di macchinari e di scorte».

Da accorto uomo di affari, il Pisa si affrettò a rivendere il tutto a prezzo maggiorato al mercante Vincenzo Munzi. Il Munzi, poi, «spogliò completamente il castello e il tenimento delle suppellettili, degli attrezzi, dei macchinari e delle scorte», e lo rivendette a prezzo ancora più alto al conte Domenico Antonelli, il 25 ottobre 1926.

Il 9 settembre 1939, nuovo passaggio di proprietà, nelle mani dei fratelli Giuseppe e Salvatore Minotti di Frosinone.

Ormai, la già operosa e prospera tenuta era diventata oggetto di baratti, di spoliazioni, di liti. Forse i contadini del posto rimpiangevano i tempi in cui la tenuta dipendeva dai monaci.

Finalmente, il 7 maggio 1940 si ebbe l'ultimo passaggio di proprietà, dai Minotti ai fratelli Carlo, Enrico e Giulio Gra. Ma ormai l'antica tenuta aveva quasi totalmente cambiato la sua fisionomia.


Come era la giornata nella Tecchiena dei secoli scorsi?

La vita di ogni giorno a Tecchiena e nel Castello-Grangia era fatta di nascite, di addii, di sposalizi e di feste, di accadimenti della vita agricola come la semina, la mietitura, la vendemmia e, poiché nella tenuta viveva ed operava una numerosa colonia di monaci, ogni giorno, prima durante e dopo il lavoro, il tempo era riservato alla preghiera. Era questa quindi la vita di ogni giorno: anche se monotona, dura, vissuta in un ambiente sempre uguale, era pur sempre vita e sicuramente migliore di molti altri posti.

I monaci non lavoravano tutti i campi del vasto territorio di Tecchiena (quasi mille ettari, compresi i monti e i boschi). Essi al loro arrivo vi trovarono già una popolazione dal momento che, alla loro venuta, il castello era abitato. Pian piano gli abitanti del luogo abbandonarono le anguste casette del castello e costruirono a valle le loro abitazioni, presso i campi che lavoravano e i boschi e i prati nei quali il loro bestiame poteva liberamente pascolare.

Agli antichi abitanti del castello altri se ne aggiunsero, provenienti dai comuni limitrofi. Gli Statuti li invogliavano a venire ad abitarvi. I nuovi residenti potevano liberamente abbattere alberi nella selva per avere il legname necessario a costruirsi la casa in cui abitare, legnare nei luoghi incolti, cacciare.

Non soltanto chi vi abitava, ma anche chi a Tecchiena veniva unicamente per lavorare, poteva condurre alcuni capi di bestiame e lasciarli liberamente pascolare nei terreni di uso comune. Tra questi lavoratori, che potremmo dire stagionali, erano particolarmente numerosi gli Alatrini.

Queste facilitazioni per attirare gente a Tecchiena, lasciano percepire un fatto molto importante. In secoli in cui la fame e le carestie erano una tristissima realtà quasi sempre attuale, possiamo esser certi che a Tecchiena la gente non soffrì la fame. Grano, frumento ed ogni specie di cereali crescevano copiosamente nei suoi fertili campi come, del resto, avviene ancora oggi. I vastissimi boschi fornivano ghiande, castagne e selvaggina in abbondanza; gli animali domestici erano numerosi.

Sembra inoltre che la violenza a Tecchiena non fosse di casa, poiché negli Statuti non si insiste eccessivamente sul penoso tasto delle percosse e delle ingiurie. Multe salate sono comminate contro chi se ne fosse reso colpevole, proprio per non far cadere gli abitanti in questi errori. In particolare, è vietato al padrone di percuotere il servo. Anche le intemperanze verbali costavano care.

Gli Statuti, invece, insistono moltissimo sui reati contro il patrimonio.

In questi, come in altri casi di reati commessi le multe, già molto forti, venivano inesorabilmente raddoppiate.

In altri casi, però, il legislatore si dimostrava molto comprensivo.

Per esempio, era stabilito che, di notte, le bestie non fossero lasciate vagare liberamente ma venissero rinchiuse nella stalla o in un recinto. Si voleva con ciò impedire che recassero danno alle culture, e, crediamo, anche per evitare che qualcuno fosse messo in tentazione di rubarle.

Il legislatore ribadisce l'obbligo di non compiere opere servili nei giorni festivi e commina gravi multe pecuniarie contro i bestemmiatori. Del resto, la religione era molto presente nella vita di ogni giorno e le ricorrenze dell'anno liturgico servivano a scandire il calendario degli accadimenti della vita agricola.

Inoltre la giustizia veniva resa la domenica, dentro oppure nei pressi della chiesa. Questo anzitutto perché in quel tempo tutti partecipavano alla messa domenicale. Quindi, si abbinavano due atti importanti per la comunità: la santificazione della festa e l'amministrazione della giustizia, con la conseguenza che questa veniva resa pubblica e così tutti erano informati, ognuno poteva darvi il suo contributo ed il delinquente era ammonito davanti al popolo.

Questo era anche un atto che intaccava il fattore psicologico. Dopo l'ascolto della santa messa, durante la quale ci si era trovati a pregare e a lavarsi dai peccati, il delinquente era più disposto ad accettare l'ammenda e l'offeso meno accanito nei suoi confronti.

E così possiamo dire gli Statuti avevano come fine ultimo non la vendetta, ma la pacificazione.


Il Castello, oggi.
La struttura della Grangia - comunemente conosciuta come Castello – è formata di più corpi riuniti da linee settecentesche. Nei pressi del complesso sono visibili anche alcune antiche rovine di quello che doveva essere il borgo dei contadini.

Il Castello di Tecchiena si trova immerso nel verde, sulle pendici del piccolo colle Monticchio sul quale, intorno all' XI secolo, nacquero alcune fortificazioni che furono incendiate e riedificate nel corso dei secoli successivi a causa delle continue contese tra popoli confinanti e adesso sicuramente ricoperte da terra e piante e forse mai riportate alla luce anche in minima parte.

Il Monticchio si è ricoperto di un fitto bosco e il viaggiatore, che percorre la via che congiunge la Casilina alla Sublacense, può ancora ammirare, imponente e dalle linee architettoniche movimentate, la sede della Grangia.

A guardarla da lontano sembra ben conservata, anche se è difficile cogliervi segni di vita. Solamente con l'immaginazione si può evocare l'incessante via vai dei monaci che, per oltre mezzo millennio, andarono e vennero dai campi. Ora tutto tace, e si ha l'impressione di passare dinanzi ad una casa deserta. Alcune strutture della tenuta sono pressoché abbandonate, mentre la parte che dà sul piazzale interno è ancora ben tenuta e pulita.

Sul monumentale portone esterno che immette nella sede della Grangia, alzando gli occhi, si scorge ancora, intatto, uno stemma formato dalle lettere CAR. Vuol dire « Cartusia », certosa, ed è l'emblema dei certosini, quei monaci che, con la loro secolare presenza ed operosità, diedero rilevanza storica al castello di Tecchiena.

All’interno dovrebbe essere ancora presente quella che era la primitiva chiesa del castello, già intitolata a San Silvestro. I monaci, peraltro, ne avevano costruita un'altra, per se e per il popolo, incorporandola alla sede della Grangia. Com'era da attendersi, essa portava il nome di San Bartolomeo, l'apostolo a cui è intitolata la certosa di Trisulti.

Il Castello (o grangia) di Tecchiena è oggi una proprietà privata semi-abbandonata e difficile da visitare in quanto gli stessi proprietari non sono molto propensi a far entrare turisti né per scattare qualche foto né tanto meno per registrare qualche video da regalare agli occhi di appassionati e potenziali altri turisti per far conoscere meglio questa splendida località storica.

La mancanza di foto e video dell’interno non rendono gloria all’antica tenuta dei certosini, che dopo quasi mille anni, ancora attira curiosità ed ammirazione al solo sguardo dall'esterno.

Attualmente non vi è possibilità di accesso, anche volendo con un biglietto simbolico a pochi euro magari per destinarli alle manutenzioni, e personalmente lo ritengo un vero peccato!

Sarebbe bello per i turisti, per la gente del posto e soprattutto per la storia e l’importanza che questa struttura ha avuto durante i secoli, poterla visitare. Sarebbe di sicuro istruttivo per molti se ci fosse amore per il turismo di questi posti di provincia e rispetto per quel che in passato era il fulcro della vita contadina e non solo di questa contrada, di questa
 terra.



Fonti: 
Wikipedia
tecchiena.altervista.org
Unietà.it